«L’impatto della transizione digitale del sistema mediatico italiano è finalmente diventato evidente, con i player nati nel digitale che raggiungono le prime posizioni, i ricavi pubblicitari digitali diventano predominanti, la creazione di nuove società di podcast e le edicole che cambiano la natura delle loro operazioni». In queste poche battute, connotate da un tono nemmeno troppo velatamente entusiasta, il Digital News Report 2022 fotografa il panorama mediatico italiano.
https://reutersinstitute.politics.ox.ac.uk/digital-news-report/2022/italy
Il rapporto in questione è uno degli strumenti internazionalmente più apprezzati nel settore, condotto puntualmente da 10 anni in qua dal Reuters Institute for the Study of Journalism in collaborazione con l’Università di Oxford: va quindi preso sul serio.
Ma – ci domandiamo – è davvero tutto oro quel che luce? Nel 2022 per la prima volta, una testata digitale, Fanpage, ha ottenuto la più ampia portata online del sondaggio (21%), superando le emittenti affermate, la principale agenzia di stampa italiana (ANSA) e le più importanti testate giornalistiche. Niente male per una testata nata nel 2011 come semplice pagina Facebook e che oggi impiega più di 60 giornalisti, all’incirca quanto le redazioni di quotidiani nazionali medio-grandi, per capirci. Commenta Alessio Cornia, ricercatore che ha curato la parte italiana del Rapporto: «Quegli attori nati nel digitale che hanno sconvolto con successo un’industria giornalistica italiana altrimenti stagnante hanno spesso adottato un focus su nicchie trascurate da organi di stampa più affermati, redazioni più giovani e più convenienti e un buon equilibrio tra forme di giornalismo tradizionali e più innovative. Fanpage, ad esempio, fa molto affidamento sui social media, sui pettegolezzi di celebrità e sulle notizie di criminalità per raggiungere un pubblico più giovane e più ampio, ma combina questo con un track record di indagini ad alto impatto che ne aumenta il profilo e la visibilità cross-mediale».
Spazio al nuovo che avanza, dunque. Ma – torno a chiedermi – che conseguenze produce questo sulla qualità della comunicazione in generale? E quali ripercussioni sul “bene comune”? Se andiamo a verificare quali testate ottengano il maggior credito da parte dei destinatari non mancano le sorprese: per il quinto anno consecutivo l’Ansa (che si conquista la fiducia del 73% degli italiani) è prima per affidabilità; seguono Il Sole 24 Ore e SkyTg24. In coda alla classifica, addirittura fuori dalla “top ten” i siti di Libero Quotidiano, Il Giornale e, pure, Fanpage.
Com’è possibile? La testata più utilizzata è anche fra quelle ritenute meno credibili? Non c’è da meravigliarsi. Il comportamento degli italiani nei confronti dei media è, in effetti, un po’ curioso. Prendiamo, ad esempio, i dati di una recente ricerca condotta dall’Osservatorio permanente Censis-Ital Communications sulle Agenzie di comunicazione in Italia.
https://www.agi.it/cronaca/news/2021-12-28/censis-informazione-social-network-15048290/
Da questo documento (dicembre 2021) si evince che in Italia 4,5 milioni di persone si informano soltanto utilizzando i social e ben 14,5 milioni hanno Facebook come fonte principale della loro “dieta mediatica”. A fronte di ciò, il 55,1% degli utenti è convinto che il digitale fomenti l’odio, il rancore, la conflittualità e il 56,2% degli italiani chiede che siano previste pene più severe per chi diffonde deliberatamente false notizie sul web. Ancora: l’86,4% del campione è consapevole che un’informazione di qualità è più garantita dai quotidiani di carta e online, da radio e televisione dove lavorano professionisti, piuttosto che ai social network, dove chiunque è libero di produrre e diffondere le notizie. Tant’è che solo il 34,3% giudica affidabili i social network.
Sic stantibus rebus, quali considerazioni si possono trarre? La prima, fondamentale, mi pare questa: c’è un diritto all’informazione che va garantito perché basilare per la qualità di una società democratica. E, tuttavia, tale diritto va di pari passo con il dovere di informarsi correttamente. Se gli utenti sanno (e lo dicono) che il giornalismo “tradizionale”, alla prova dei fatti, con tutti i suoi limiti, si dimostra più affidabile dei social, perché così tanti utilizzano solo questi ultimi per informarsi? E perché il pubblico continua a decretare il successo di testate che non riescono a essere identificate come adeguate e credibili? Solo perché sono gratis?
Qui veniamo ad un altro punto cruciale. Da anni, ormai, la consapevolezza di quanto la qualità dell’alimentazione influisca sulla salute e il benessere complessivo delle persone è un dato acquisito. Innumerevoli ricerche dicono che oggi una fetta sempre più consistente di pubblico è disposta a pagare di più pur di poter consumare cibi “bio”, prodotti con filiera corta e controllata, senza l’utilizzo di pesticidi eccetera. Perché mai una “conversione culturale” del genere dovrebbe essere impossibile anche in campo mediatico? Che i social (molto spesso) e la mala-informazione (sempre) inquinino il panorama sociale e danneggino il bene comune è un dato di fatto. Perché, allora, non provare a cambiare strada?
Lo suggerisce con chiarezza un’esperta di comunicazione come Annamaria Testa, nella sua bella prefazione al volume di Vittorio Pelligra “Parole che fanno. La logica occulta della comunicazione”, appena uscito per Città Nuova di cui consiglio vivamente la lettura.
Scrive Testa: «Questi sono tempi di information overload, cioè di sovraccarico cognitivo: l’informazione a cui ciascuno di noi è esposto continua a crescere in maniera esponenziale. La quantità di attenzione che possiamo investire per percepire, distinguere, selezionare, e infine per comprendere, è limitata, e ormai insufficiente rispetto al compito. Per questo dovremmo tutti diventare molto, molto più veloci ed esperti nel distinguere e nel selezionare, separando l’informazione che vale (e che merita la nostra attenzione) da quella che non ha valore e che può rivelarsi tossica. Addestrandoci a riconoscere, nel flusso tumultuoso dell’informazione, le parole che hanno un peso, una profondità e, appunto, un valore come intrinsecamente diverse da quelle che non ne hanno».
Un’ultima considerazione. È sempre più tempo di “giornalismo civile”, di un’informazione che metta al centro le persone nella duplice veste di cittadini e clienti.
Questo tocca in primis alle aziende editoriali, alle testate, agli operatori dell’informazione, non v’è dubbio. Ma tocca anche al pubblico.
C’è una dimensione di protagonismo civile da riscoprire. Ne parla, in modo assai convincente, Leonardo Becchetti in “La rivoluzione della cittadinanza attiva” (appena edito da EMI).
Tutti dobbiamo fare la nostra parte per contribuire al cambiamento: vale per l’economia, vale per la situazione dei media. Ebbene. Se non avverrà uno sforzo congiunto, non si fermerà la deriva in atto – fatta di clickbaiting, rincorsa esasperata all’audience, sensazionalismo, fake news – anzi: le cose peggioreranno. Al contrario, se anche il pubblico diverrà più esigente in termini di news, se i cittadini faranno valere i loro diritti di essere informati adeguatamente (prima che la loro voglia di consumare notizie quali clienti distratti e inconsapevoli), allora ci sarà spazio per un’informazione diversa e migliore, per un giornalismo costruttivo, attento al bene comune, preoccupato di denunciare ma anche di offrire soluzioni. E via di questo passo. Insomma: la rivoluzione va fatta insieme.
Gerolamo Fazzini