Le democrazie conoscono la competizione, come ad esempio quella elettorale: quando due candidati si sfidano per la carica a Sindaco o per un seggio in Parlamento, c’è uno che vince e un altro che perde. Sempre. Lo sappiamo, lo accettiamo e va bene così. È il modo migliore, imperfetto, ma finora il più civile che le comunità umane hanno ideato per assumere e trasmettere il potere.
I conflitti costituiscono un esito possibile della partecipazione. E anche le democrazie non ne sono immuni. Eppure, le democrazie contemporanee (non illiberali) hanno l’ambizione di risolvere i conflitti in maniera non violenta, di comporre il dissenso con le parole, senza far risuonare il rumore assordante delle armi.
La logica della guerra è quella della competizione portata alle estreme conseguenze. È il potere “muscolare” per eccellenza. Le armi misurano la forza sul campo. E più l’arsenale a disposizione è pericoloso e sofisticato e meno i due contendenti possono permettersi di perdere.
Se nessuno dei due può perdere, la guerra è destinata a cronicizzarsi e la diplomazia a girare a vuoto. Il braccio di ferro continuerà sul campo e fuori, con tutta la carica della propaganda bellica. Nel frattempo il costo di sofferenze e di vite umane è destinato a lievitare in maniera drammatica.
Sarà questo il destino del conflitto in Ucraina?
Chiara Tintori