Oggi, al tempo della pandemia, non basta più (ri)mettere al centro l’uomo, e nemmeno la donna. Abbiamo bisogno di fare un salto di qualità: da un approccio antropocentrico ad una visione antropologica. Rimettere al centro le relazioni dell’uomo e della donna: con se stesso, con gli altri, con la trascendenza, con l’ambiente. Che poi non è altro che assumere la prospettiva dell’ecologia integrale.
Ma basterà rimettere al centro le relazioni? Se saranno mercantilistiche, in cui l’altro è considerato solo se e fino a quando ci serve, non andremo molto lontano.
Che siano relazioni di cura, che portano ristoro, che sanano.
Che siano relazioni fraterne inclusive e aperte, per ampliare l’orizzonte delle nostre preoccupazioni e prenderci cura di quanti rimangono esclusi. Torniamo insieme ad ascoltare il grido dei poveri, di chi è scartato e periferico, assieme al grido della terra. Siamo ancora capaci di vedere e di sentire con empatia e compassione che cosa succede nel mondo? Di guardarci negli occhi, coltivando domande e cercando insieme risposte che gettino ponti e non alzino muri?
Che siano relazioni con il senso del limite, non prigioniere del mito dell’eccellenza, di essere ad ogni costo dei vincenti. Siamo tutti immersi in relazioni personali e sociali in cui vige l’obbligo della perfezione, sempre e a qualunque costo. Sì che questa pandemia ci ha mostrato che siamo tutti fragili, in quanto creature. La nostra comune esposizione alla precarietà è il terreno condiviso della possibile uguaglianza e dell’obbligo reciproco ad abitare insieme, da vulnerabili, questo tempo.
Quando mettiamo al centro relazioni così, scegliamo di indossare gli abiti della speranza.
La speranza non dipende dalla probabilità che un risultato si realizzi, né dal desiderio che qualcosa avvenga. È trovare un grammo di possibile dove avere, con grande realismo, la pretesa di poter fare la differenza. Un grammo di possibile è quell’abbozzo di multilateralismo che ha animato il G20 di Roma e che potrà far sì che la COP26 di Glasgow non sia l’ennesimo ‘bla, bla, bla’.
Chiara Tintori