L’Italia è una superpotenza alimentare, ma per mantenere il suo primato l’autocelebrazione non basta. Pochi giorni prima di Pasqua è andato in scena a Verona il Vinitaly, la fiera del vino più importante d’Italia e tra le principali al mondo. Anche se fiere analoghe di paesi meno produttori ma maggiormente consumatori valgono di più e sono più internazionali, Vinitaly è comunque una vetrina importantissima sia per i produttori del belpaese, sia anche per la politica che ogni anno non manca di parteciparvi rilasciando dichiarazioni entusiaste sul cibo italiano e le sue qualità.
Come da copione, anche quest’anno non sono mancati esponenti di primo piano, a partire dall’autorità più attesa, Giorgia Meloni, che proprio a Vinitaly ha proposto la creazione del liceo del Made in Italy. “Il vino è un pezzo fondamentale della nostra identità e della nostra cultura” – ha dichiarato la premier che poi, davanti al padiglione del ministero dell’Agricoltura e della Sovranità Alimentare, ha rilanciato la candidatura della cucina italiana a patrimonio dell’Unesco.
Durante la manifestazione, dalla stampa alle riviste di settore è un susseguirsi di articoli e dichiarazioni impegnate nell’esaltare anche quest’anno l’eccellenza del vino italiano, eppure l’impressione che si ha girando i padiglioni della fiera è un’altra. Rispetto all’era pre-covid la gente è comunque meno e trovare alcune cantine iconiche è divenuto un’impresa: alcune non espongono più, altre sono state spostate di padiglione o posizione, divenendo di fatto introvabili.
L’elenco degli espositori infatti non è facile da trovare e consultare né sul sito né tra un padiglione e l’altro, le cantine non sono sempre in ordine alfabetico sui pannelli e la suddivisione regionale non è sempre rispettata, anche a causa della scelta di istituire sul fondo il padiglione dedicato ai vini biologici e naturali. Ciò nonostante, gli stand delle cantine meno conosciute restano praticamente sempre privi di pubblico nonostante sulla carta questo modello dovrebbe favorirli. Continuano poi ad esserci alcuni padiglioni dimessi, a tensostruttura, che certo non rappresentano un bel biglietto da visita per le regioni vitivinicole che vi sono collocate. L’offerta gastronomica interna alla fiera, ampliata, resta infine ancora troppo dimessa e limitata per una rassegna di questo tipo.
Mercoledì, l’ultimo giorno, alle 15 si inizia a sbaraccare, alle 15:45 non è più possibile trovare un bicchiere: davvero troppo presto considerando quanto costa entrare. Da quando Vinitaly è programmato su 4 giorni e non più su 5, esiste un regolamento secondo cui l’ultimo giorno della manifestazione è vietato smantellare gli stand prima delle 18.00. Sarebbe prevista persino una multa da parte di Veronafiere, che ovviamente non può essere applicata se a intimare alle persone di uscire è l’organizzazione della fiera stessa.
Buona idea la possibilità di fare il test del palloncino allo stand della polizia prima di mettersi o meno al volante, ma andrebbe molto potenziato, altrimenti resta semplice azione dimostrativa appannaggio di pochi anche in una giornata con poca gente nei padiglioni.
Insomma: biglietto troppo caro, ben 120 euro al giorno quest’anno, anche in considerazione della non brillante organizzazione offerta e dell’ingresso riservato solo agli operatori, alle associazioni e ai giornalisti del settore certificati. Giornate feriali prevalenti ed eventi diffusi in città ben più briosi e dedicati anche al grande pubblico stanno svuotando la fiera: all’inizio sembrava l’unica direzione possibile per migliorare la qualità e l’utilità dell’evento per gli espositori e i professionisti, ma vien da chiedersi se non stia divenendo inospitale anche per loro.
Se si vuol realizzare la sovranità alimentare, anche una manifestazione come Vinitaly dovrebbe essere in grado di favorire e valorizzare davvero il comparto, cosa che in passato è riuscita, altrimenti il rischio è che si riduca a semplice passerella mediatica per le élite.
Marco Chiappa