Ho ricevuto nei giorni scorsi una riflessione sul nuovo concetto di guerra, collegato soprattutto ai conflitti in atto in Ucraina e in Israele. Mi pare molto stimolante e, con il permesso dell’autrice, Sara Barbè, la rilancio per favorire un confronto su queste vicende che stanno colpendo la coscienza di tutti noi.
Graditi, ovviamente, ulteriori commenti e approfondimenti.
Provo disagio nel discutere di guerra con chi – sia in ambito ecclesiale che politico e militare- ragiona di ciò che accade oggi come se fossimo ancora nel secolo scorso. Come se non ci fosse stato un cambio di paradigma. Ovviamente, ciò che accade oggi ha radici nel passato. Ma non tenere conto del fatto che c’è stato un cambio di paradigma è in primo luogo pericoloso, e in secondo fuorviante. Anche perché in mancanza di un vocabolario adeguato, e per ragioni propagandistiche, siamo ormai tutti immersi in una brutta versione distopica del passato, in salsa populista.
Il primo cambio di paradigma da considerare è quello che vede per la prima volta dal 1945 l’Europa rompere il tabù della guerra. La guerra in Ucraina non può essere paragonata ai conflitti che accompagnarono la dissoluzione della ex Yugoslavia. Se proprio va cercato un paragone nel passato, il più vicino è l’invasione della Polonia da parte di Hitler. E questo accade mentre ancora gli equilibri mondiali stanno cercando un faticoso riassetto dopo due anni di pandemia e in un momento di crisi delle democrazie, anche a causa della crescente instabilità mondiale e dei conseguenti fenomeni migratori . Ragionare di pace e guerra come se si trattasse semplicemente di mettere i contendenti intorno un tavolo e obbligarli a trovare un accordo, o come se improvvisamente tutti fossero impazziti e avessero perso di vista le ragioni della pace, è veramente riduttivo. È importante, in un tempo come questo, non rinunciare a portare avanti la speranza nelle ragioni della pace. Ma riconoscere come dice il Qoelet che c’è un tempo per la guerra e uno per la pace, è altrettanto importante.
Alla parola guerra usata come sinonimo di annientamento del nemico, sostituirei per chiarezza la distinzione che il filosofo argentino Miguel Benasayag fa nel suo elogio del conflitto tra l’idea di guerra come presentata ne “L’Arte della Guerra” e quella di guerra come scontro totale mirato alla distruzione dell’avversario. La sua idea è che il rifiuto generalizzato della conflittualità del reale (il tabù di cui parlavo prima) attuato dalle nostre società porti, come ogni rimosso, a un “agito” conflittuale più violento e totalizzante.
Quanto alla guerra in corso attualmente in Medio Oriente, non mi pare proprio sia semplicemente l’ennesima recrudescenza del conflitto arabo/israeliano. L’azione di Hamas ha dietro una regia neanche tanto occulta. E di certo, tanta ferocia non è stata messa in campo senza avere consapevolezza di che tipo di reazione avrebbe causato. Soprattutto con l’attuale governo di Israele. Si è cercata la guerra. Per diversi motivi (ci sono attori diversi in campo con interessi solo in parte coincidenti), non ultimo fermare gli accordi tra Israele e l’Arabia Saudita. Sperare che Israele non ci caschi, sarebbe bello, ma difficile anche dal punto di vista politico. Non a caso gli USA stanno facendo il possibile per moderarne la reazione.
Piango personalmente ogni donna uomo vecchio o bambino vittima di guerra violenza o fame e paura. Sotto assedio per diversi mesi ci sono stati i bambini del Nagorno Karaback. È finita come è finita, con molta meno attenzione internazionale. Ma piango anche per quelli che imparano troppo presto a odiare e uccidere.
Poi però, se devo prendere una posizione, la prendo guardando in faccia la realtà e leggendo i segni dei tempi.