Domenica prossima, dopo un percorso piuttosto tortuoso, il Partito Democratico sceglierà il successore di Enrico Letta come segretario nazionale.
Non entriamo nella sfida tra Stefano Bonaccini ed Elly Schlein, che sarà decisa dal cosiddetto popolo delle primarie, ma credo utile proporre qualche riflessione sulla modalità con cui il Partito Democratico si avvicina a questa scadenza.
Un primo dato è indiscutibilmente positivo: coinvolgere iscritti e simpatizzanti nella scelta di un leader di partito è un importante e coraggioso segnale di partecipazione, in un tempo in cui la politica viene considerata sempre più lontana dai cittadini. Molti dirigenti del PD temono il rimbalzo negativo derivante da una possibile scarsa affluenza ai “gazebo”, ma la partecipazione è comunque un segnale positivo che va salutato con grande favore.
Secondo. E’ giusto che la scelta della leadership di un partito venga affidata a una platea potenzialmente molto ampia di elettori e non solo di iscritti al partito stesso? Le primarie aperte sono sempre state uno strumento per uscire dalle logiche di apparato che hanno accompagnato la storia dei partiti novecenteschi, ma non c’è il rischio che gli iscritti, ovvero coloro che hanno deciso di esplicitare il loro sostegno al partito, vengano esautorati da un voto di opinione che potrebbe anche smentire il risultato emerso dal voto dei circoli del partito stesso? Uno schema di questo tipo è figlio di un’altra epoca politica, all’insegna del bipolarismo, in cui il leader del maggior partito del centrosinistra era automaticamente anche il candidato Presidente del Consiglio dello schieramento. Uno schema di questo tipo non rischia di essere smentito da un sistema che non ragiona più sul bipartitismo e neppure secondo un’ottica maggioritaria?
Terzo. Sulla base di quali elementi i cittadini che il 26 febbraio si recheranno a votare sceglieranno il prossimo segretario del PD? L’impressione è che i programmi proposti dagli sfidanti (ma anche dagli altri due candidati esclusi dopo le convenzioni dei circoli) siano sostanzialmente sovrapponibili e non abbiano grandi differenze di fondo. La scelta potrebbe essere determinata allora dal profilo personale di Bonaccini e Schlein o dalla loro capacità comunicativa. Ma allora, perché proporre un lunghissimo e macchino percorso congressuale con presentazione delle mozioni nei circoli e voto negli stessi per poi affidare la scelta definitiva a una platea di voto ancora diversa che non approfondirà di certo i contenuti delle rispettive proposte?
E’ vero che al PD piacciono le cose complicate, ma non è forse anche questo uno dei motivi del suo scarso appeal tra gli elettori?
Tirinnanzi