L’ultimo numero di “Internazionale” ha pubblicato due ampi articoli dedicati alla rincorsa agli armamenti. “The Economist” e “The New Left Review”, due periodici britannici, hanno fatto i conti in tasca alle multinazionali delle armi scoprendo che la guerra in Ucraina ha fatto schizzare ordinativi e utili.
Il britannico gruppo Bae Systems nel 2022 ha aumentato il fatturato del 9% vedendo crescere del 73% gli ordinativi; il principale produttore di armi tedesco Rheinmetall ha aumentato i profitti del 61% arrivando a fatturare 6,4 miliardi di euro; anche Leonardo, sebbene l’Italia non abbia contribuito con grandi quantità di armi all’Ucraina, ha visto crescere le ordinazioni del 30% per le richieste di paesi alleati che devono ricostituire i propri arsenali.
Niente di illegale, s’intende, ma la sensibilità dell’opinione pubblica al tema della produzione di armamenti, fino a una ventina d’anni fa molto pronunciata, oggi è stata sostanzialmente anestetizzata da una situazione internazionale che chiede più sicurezza e diffonde la paura. Tra l’altro, l’industria bellica è uno dei pochi settori che si autoalimenta, perché a un incremento di produzione o di richiesta da parte di alcuni paesi corrisponde un aumento anche da parte di coloro che vi si oppongono.
La finanziarizzazione ha travolto anche il mondo della produzione delle armi, creando veri e propri paradossi che stanno mescolando le carte e creando evidenti confusioni di piani e di ruoli.
L’industria bellica non è più in mano a grandi gruppi facilmente identificabili e in qualche modo controllabili; i padroni dell’industria delle armi sono ormai fondi di investimento che investono in modo estremamente diversificato puntando, ad esempio, su case di riposo in un paese europeo, miniere in Africa, piantagioni in Sud America o fabbriche di droni “suicidi” in altre parti del mondo. Accade anche che tra gli investitori in armi ci siano anche grandi fondi pensione, con l’effetto paradossale che il rendimento della pensione integrativa di un tranquillo operaio europeo dipenda dai profitti di una multinazionale che vende armi in mezzo mondo.
Relazioni “pericolose” che dovrebbero far riflettere e che condizionano opinioni pubbliche che ormai non si scandalizzano più per il boom di produzione bellica, anzi, in qualche modo devono auspicarlo.
Tempi duri per ciò che rimane del pacifismo, ormai accusato di essere fuori dalla storia dai cantori di un patriottismo che genera, come effetto neppure troppo collaterale, grandi affari per i produttori e i commercianti di armi.
Fabio Pizzul