La terribile morte di Giulia Cecchettin ha colpito profondamente tutti noi.
Si moltiplicano le manifestazioni di indignazione e le promesse di far sì che non accadano più tragedie del genere. Si scende in piazza affermando che tutti gli uomini devono sentirsi colpevoli, invocando un cambiamento culturale e la necessità di costruire percorsi di educazione all’affettività e al rispetto.
Tutte cose giuste. Necessarie. Importanti.
Altri invocano pene esemplari e strumenti per far sì che i maschi violenti siano messi nelle condizioni di non nuocere e le donne difese di fronte alle prime manifestazioni di violenza.
Provvedimenti in questa direzione sono stati presi, ma la triste serie dei femminicidi continua ad allungarsi.
Si auspicano interventi legislativi condivisi e sarebbe un ottimo segnale.
Anche l’introduzione di specifiche iniziative a livello scolastico potrebbe avere un senso.
Ho l’impressione, però, che ci sia qualcosa di più profondo, che chiama in causa quella che potremmo definire competenza relazionale, ovvero la capacità di costruire rapporti con gli altri che non si basino solo su dimensioni utilitaristiche o caratterizzate da conflittualità perenne e dall’incapacità di accettare un limite alla propria autorealizzazione.
Non sono competenze che si possono imporre o acquisire per legge. Difficilmente si trasmettono attraverso moduli didattici. Neppure il timore di pene pesanti credo possa avere una qualche efficacia.
Le competenze relazionali si costruiscono attraverso lunghi percorsi di attenzione e cura, di tempo passato con, di gesti che fanno sentire importanti, di ascolto e pazienza, di attesa e, talvolta, di pianti silenziosi. In altre parole, percorsi educativi. Ma per questo ci vogliono adulti disposti a mettersi in gioco come educatori, al di là di percorsi formali, con la disponibilità a stare accanto ai più giovani, a perdere tempo per e con loro, a testimoniare la possibilità di una vita donata agli altri e non spasmodicamente trattenuta a proprio vantaggio.
Fabio Pizzul