La guerra, come il Covid, è stata e continua a essere un banco di prova per i giornalisti, a tutte le latitudini. Un’emergenza che interroga chi ha scelto questa professione sul compito dell’informazione e su come raccontare quanto accade a poche centinaia di chilometri da noi, smontando la propaganda e non contribuendo, al contrario, a diffonderla. Un’emergenza che fa riflettere tanti su come, ad esempio, il giornalismo di alcuni talk abbia smesso di mettere a confronto tesi di esperti, per lasciare a chiunque il potere di urlare e confondere le idee di chi ascolta. Ci muoviamo in un campo in cui diventa facile contribuire a distribuire notizie non verificate e decontestualizzate, lasciando che i fatti vengano sommersi da un coro di opinioni. Siamo inondati da notizie, ma nella rappresentazione i belligeranti vengono divisi in modo acritico in buoni e cattivi: oggi non ci sono dubbi su chi sia l’aggressore, ma bisogna resistere all’impulso di criminalizzare chi tenta di riflettere sulle complessità della situazione.
Le guerre si sono sempre combattute su due fronti: sul terreno e nello spazio delle informazioni. La propaganda, lo sappiamo, non è un’invenzione recente ed è da sempre uno degli strumenti di cui si serve la guerra: silenzioso, che non fa rumore come le armi, ma rischia di provocare gli stessi danni quando i vari contendenti, oltre alle battaglie, cercano di aggiudicarsi anche cuore e mente delle persone. In questa guerra, che non mi sento di chiamare “operazione speciale” come continua a fare l’aggressore, un ruolo fondamentale hanno anche i social: trasformare le informazioni e le false informazioni in armi è diventato ancora più facile e veloce. Il 3 maggio si è celebrata la Giornata mondiale della libertà di stampa, a ricordarci come solo le luci di un’informazione accurata e documentata possano contrastare le trame oscure della disinformazione. Lo dobbiamo al lettore, unico nostro faro. La Giornata è arrivata a poche ore dal “caso Lavrov”. Il ministro degli Esteri russo ha scelto un’emittente italiana per esprimere il proprio pensiero. Un’intervista necessaria, peccato che le condizioni imposte dall’intervistato e le modalità delle domande dell’intervistatore, e le sue non interruzioni in occasione di dichiarazioni folli, non abbiamo reso un buon servizio all’informazione. Che fare, allora? “Quando il cannone tuona, la verità fugge”, diceva Winston Churchill. Quando gli eventi suscitano emozioni forti che rischiano di annebbiare qualsiasi lettura della realtà, è lì che il giornalismo ancora di più è messo alla prova. Una prova che non si deve trasformare in gara per aumentare l’audience con immagini raccapriccianti. Un’ultima riflessione, non solo come giornalisti ma come cittadini, su quanto successo con il New York Times. Uno dei più prestigiosi quotidiani al mondo ha rivelato come gli Usa siano più che semplici fornitori di armi per Kiev, e per questo è stato duramente attaccato dalla Casa Bianca. La libertà di stampa non può mai essere messa in discussione o imbavagliata. Ai professionisti il compito di diffondere una buona e accurata informazione, ai lettori il compito di ricercarla e difenderla. Non solo nel racconto della guerra in Ucraina.
Silvia Morosi