Ogni cammino può svilupparsi al meglio solo quando è ben chiara la meta da raggiungere. Solo con grandi obiettivi si possono sopportare grandi fatiche e sacrifici. Sono considerazioni che valgono per lo sport, per la politica, per la vita più in generale. Il prezzo da pagare all’assenza di mete alte è quello dell’appiattimento sul momento che stiamo vivendo, dell’eterno presente, della ricerca di soddisfazione solo nell’immediato godimento, vacuo antidoto al vuoto di senso che assedia le nostre giornate. La sapienza della tradizione cristiana è maestra preziosa nell’indicare la meta, l’incontro con il Padre, che dà senso al cammino e riempie le giornate, come suggerisce il tempo dell’Avvento, lenta e costante e gioiosa preparazione all’incontro con il Dio che viene. Ma qual è la meta da raggiungere per noi oggi? In chiave politica si potrebbe dire che la meta non sia più la rinascita dell’Italia dopo la pandemia, che pareva aver messo tutti più o meno d’accordo sulla necessità di Draghi, quanto piuttosto la conquista del potere. Per far che cosa, poi, al momento non è così chiaro. Se non si è in grado di indicare con precisione la meta, il rischio è che ci sia sempre meno gente che creda al cammino che proponiamo. Per questo, sarebbe fondamentale che anche chi fa politica oggi si concentrasse sulle idee e sulle proposte per il futuro dell’Italia piuttosto che sulle pur legittime e comprensibili strategie per l’elezione del successore del presidente Mattarella o sella sorte del Presidente del Consiglio e, conseguentemente, della legislatura.
Se indico la meta, posso chiedere fatiche e sacrifici, se mi limito a gestire il potere e i suoi equilibri, mi troverò da solo o solo in compagnia di coloro che hanno speranza di dividere con me un pezzo di potere.
Che possa essere questa una possibile spiegazione del continuo crescere dell’astensionismo?
