Dal Corno d’Africa arriva finalmente un segnale concreto di pace. Dopo due anni di guerra civile sanguinosa in Tigray, che si stima abbia causato nell’indifferenza globale mezzo milione di morti, il governo federale di Addis Abeba e le forze regionali tigrine hanno stipulato un accordo a Pretoria il 2 novembre fortemente sostenuto dall’Unione Africana e dagli Usa.
In cambio dell’invio di aiuti umanitari a sette milioni di tigrini –stremati dopo oltre un anno di blocco di viveri e medicinali e oscurato da un blackout energetico e comunicativo tutti messi in atto dal governo etiope – le forze di difesa regionali hanno acconsentito a smobilitare riconoscendo l’autorità dei federali. Un mese dopo il disarmo si è c compiuto al 65%. Un deciso passo avanti per una nazione dilaniata da altri conflitti etnici e che ha invece bisogno di pace per proseguire sul cammino dello sviluppo tragicamente spezzato dal conflitto.
Secondo le agenzie umanitarie Onu, almeno 5,5 milioni hanno bisogno di assistenza umanitaria per vivere, l’Unicef ha denunciato la situazione di malnutrizione e le malattie che stanno minando la generazione tra i 6 e i 24 mesi. Sono 2,5 milioni i tigrini sfollati e l’Oms non è ancora riuscita ad avere pieno accesso per distribuire farmaci. Restano due macigni da rimuovere. Il primo è la presenza in territorio tigrino, cioè etiope, delle forze armate eritree e delle forze regionali Amhara, alleate di Addis Abeba, che stanno continuando a saccheggiare, violentare e uccidere civili nonostante la tregua. Entrambi vantano rivendicazioni territoriali sul Tigray ma l’accordo di pace ribadisce l’integrità territoriale della regione del Nord Etiopia che il governo dovrà garantire. Secondo, l’individuazione dei responsabili di stupri e massacri di civili commessi dalle due fazioni in 24 mesi di guerra. Senza giustizia, occorre ribadirlo, non vi sarà vera pace in Etiopia.
Paolo Lambruschi