I dati delle ultime elezioni ci consegnano un’Italia ammalata di astensionismo galoppante come mai nella storia della Repubblica. L’affluenza alle urne si è fermata al 64%, ben dieci punti meno del 2018. In Campania e Calabria il record negativo: è rimasto a casa un elettore su due. Quali spiegazioni? Io, qui, mi limito – da giornalista – a guardarmi allo specchio, provando a rispondere a due semplici domande: come operatori dell’informazione abbiamo dato ai cittadini gli elementi importanti e necessari per decidere a quali persone e formazioni politiche affidare il voto? Ancora: il giornalismo oggi incoraggia o meno la partecipazione consapevole della gente alla vita politica o, piuttosto, la raffredda?
Sul primo punto: mi pare che il mondo dell’informazione, in vista del 25 settembre, abbia fatto solo in parte il suo mestiere. Vero, su alcuni quotidiani sono apparsi analisi dettagliate dei programmai, talora sintetizzati in efficaci infografiche, ma sappiamo che oggi solo una piccola parte dell’elettorato legge i giornali. In Tv sono stati dedicati molti spazi al voto, ma raramente mi sono imbattuto in interventi pacati e mirati a un autentico “giornalismo di servizio”. Mi chiedo anche: come e con quale linguaggio sono stati raggiunti i giovani? Che ruolo hanno giocato (o avrebbero potuto giocare) i social? Detto in sintesi: perché il giornalismo possa dire di aver fatto la sua parte (offrendo ai cittadini/elettori gli strumenti necessari per «conoscere per deliberare», come diceva Einaudi) occorre che provi ad esplorare piste nuove e linguaggi diversi, in maniera tale che chiunque, con qualsiasi titolo di studio in tasca, possa essere raggiunto da un’informazione credibile.
Quanto alla seconda questione, avanzo quel che per me è un sospetto e, se confermato, diventa un cruccio. Ho l’impressione che, negli anni, un certo stile giornalistico – basato su inchieste “a tesi”, sul dileggio della “casta”, su un linguaggio che denigra l’avversario – abbia contribuito, di fatto, al di là delle migliori intenzioni, ad allontanare la gente dalla politica, ingenerando forme di pericoloso qualunquismo. Più in generale, ho la sensazione che un’eccessiva insistenza sul negativo produca assuefazione nel pubblico e, peggio, rassegnazione fatalistica («tanto non cambierà mai nulla»), anticamera di quel disimpegno che poi spiega l’astensionismo. Se fosse così, assisteremmo a un pericoloso boomerang: il giornalismo che denuncia per creare consapevolezza e voglia di cambiamento genera il suo contrario. C’è da riflettere e provare a spingersi su vie nuove, verso un “giornalismo civile” che consideri il destinatario cittadino e cliente insieme.
Gerolamo Fazzini