Ancora una volta c’è stato bisogno dei tempi supplementari. Era già successo nel 2015 a Parigi, a Sharm el Sheik le delegazioni dei Paesi della COP27 hanno proseguito i negoziati per oltre 30 ore rispetto alla scadenza prevista.
Il Segretario generale delle Nazioni Unite, nel suo discorso iniziale della Conferenza, aveva colto in maniera netta la posta in gioco: “l’umanità deve scegliere: cooperare o perire. Quindi o è un patto di solidarietà per il clima, o è un patto di suicidio collettivo”.
Nell’accordo raggiunto, il Sharm el Sheikh Implementation Plan, troviamo un fondo per assistere i Paesi sui danni e le perdite causate dalle crisi climatiche (Loss & Damage). È indubbiamente un passo avanti storico sulla strada della giustizia climatica, anche se ancora troppi dettagli non sono chiari: chi beneficerà del fondi? A quali condizioni? Dove verranno prese le risorse?
Sul fronte della mitigazione ai cambiamenti climatici i risultati della COP27 sono alquanto deludenti, anche perché non si è avuto il coraggio di indicare riduzioni precise ai combustibili fossili (addirittura si è preferito parlare di “fonti di energia a bassa emissione”).
Durante i giorni di negoziati la frustrazione è stata tanta, anche perché la governance mondiale non è ancora riuscita a capire come non far girare a vuoto il multilateralismo. E sì, perché questi tipi di accordi non prevedono sanzioni o coercizione per gli Stati intenzionati a defezionare.
Al termine della COP27 resta il problema più grande: la coerenza e l’attuazione degli impegni assunti. In un contesto internazionale dove predomina il “si salvi chi può”, passare dalle parole ai fatti è una questione di interesse nazionale. E poco più.
Come far evolvere la cooperazione è da sempre un problema spinoso delle organizzazioni politiche. Tornano alla mente la reputazione, la fiducia e la reciprocità che la politologa Elinor Ostrom, premio nobel per l’economia 2009, consegnò come ingredienti per una corretta gestione dei beni comuni. Il clima è tra questi.
Tra una COP e l’altra, mentre gli attori internazionali potrebbero crescere in buona reputazione, fiducia e reciprocità, a noi resta la responsabilità personale e sociale di sapere che il nostro stile di vita può fare la differenza, anche nel contrasto ai cambiamenti climatici e nella solidarietà a chi ne è più colpito.
Tra una COP e l’altra, mentre gli attori internazionali decidono se essere solidali o suicidarsi, è nostro dovere ricordare ai politici che il grido della terra e quello di poveri sono due facce della stessa medaglia.
Chiara Tintori